3ViTre - Archive of Polypoetry


Polipoesia

La vocalità rappresenta per la letteratura una produttiva zona di ricerca, sia in epoca pre o post gutemberghiana. Uno strumento flessibile, soprattutto se analizzato sotto l'aspetto diacronico, capace di veicolare il tratto ludico-creativo (la ninna-nanna', gli stornelli amorosi, i ritmi dei gondolieri...) e il tratto ludico-ideologico (i canti dei neri, il folklore padano, le tradizioni popolari dell'Est). L'insistenza verso il ludico si giustifica per la sua netta collocazione in chiave huizingana, "la poiesis è una funzione ludica", ma è soprattutto Roger Caillois abile definitore di ludus come gioco regolato e di paidia come gioco spontaneo a fornire due preziose chiavi per interpretarne la struttura di fondo. La storia della poesia sonora, che altro non è se non il percorso sincronico della vocalità, ha preso talora la via della ratio (Marinetti, Depero, Artaud, Dufrène, Garnier, Heidsieck, Ruhm, Nannucci, Kostelanetz, Hanson, Santos...) talora il lato emotivo (Russolo, Krucenych, Ball, Tzara, Schwitters, Petrolini, Totò, Isou, Chopin, Higgins, Spatola...). Ambo le linee, per dirla con McLuhan, in quanto voce, scrittura fonetica, poi sonora, il cosidetto mito di Cadmo sono mezzi caldi, quindi pieni di energia da palcoscenico, mentre va da sè che la scrittura scritta ancorata alla tipografia, alla staticità della pagina, alla linearità del verso, è mezzo freddo. Confondere i due piani operativi, fatto talora abbastanza comune e purtroppo diffuso di questi tempi, è controproducente, porta all'aporia, all'impasse. Una confusione che non giova nè alla poesia lineare nè alla poesia sonora, e non serve rinverdire antiche pratiche affabulanti, ignorando il grande passato che ne è stato prototipo.

Al di là della sterile contrapposizione poesia sonora e poesia lineare, nonchè delle diverse implicazioni ideologiche, che pur sono evidenti, e anche, perchè no, di un pubblico differenziato, va riconosciuto che la vocaltà ha un suo potere propositivo. Tale potere è stato convogliato, nel passato decennio, verso un rumorismo significante, teso ad annientare il corpo della parola, non tanto in preda a manìe distruttive, quanto a scopi ben determinati di rivitalizzazione di uno strumento che si avvertiva stantìo, inefficace, non all'altezza della situazione. Con i primi anni Novanta, è tornata la parola, nella sua duplice veste sonor-semantica, a proporsi come prima interlocutrice del poeta sonoro. Ritorna di moda quanto Stanislawski diceva ai suoi allievi, "ripetete in cinquanta modi diversi la parola stasera". Una parola pressata tra ritmi-toni-fonemi-onomatopee-disarmonie-neologismi-timbri-altezze-onde-significati (software) e campionatori-sintetizzatori-computer-dat-microfoni-nastri-mixer (hardware), con insanabili lacune logico-operative o logico-estetiche, se è lecito parlare d'estetica applicata al poema sonoro, e i canoni o classificazioni attraverso i quali la stiamo facendo scorrere, dimostrano che è oltremodo lecito.

Se il poema sonoro si è spesso rivelato un esercizio cerebrale, noioso e sgradevole, o oppresso da un eccesso di tecnicismo, avrà agio e tempo di dimostrarsi capace di essere evento, proprio nel senso in cui Rilke intendeva l'opera d'arte, "una confessione molto intima che si manifesta con il pretesto di un'esperienza, di un evento". Anche il poeta sonoro può produrre il suo erlebnis, la proprio visione del mondo. Senso dell'esistenza, dentro un contesto sempre più elettronizzato, dove l'iterazione è un irrinunciabile diktat, ma è la ripetizione stessa che diviene la sua arma migliore perchè "la soggettività può essere assunta, paradossalmente solo attraverso la ripetizione" (Baudrillard), e lo stesso Bense, in tema di ripetizione, poneva l'accento sulle "frequenze con cui avvengono determinati eventi testuali", a sottolinearne l'evidente importanza.

Si è detto della poesia sonora come mezzo caldo e, quindi, della necessità dell'ibrido tra media diversi. Ma "l'incontro tra due media, è un momento di verità e di rivelazione, dal quale nasce una nuova forma" (McLuhan), ecco allora che la poesia sonora cede il passo alla Polipoesia che è una efficace commistione tra linguaggi appartenenti a diversi media, dove la poesia sonora continua ad avere, conditio sine qua non, il ruolo-guida, primus inter pares, l'elemento che dà omogeneità e unità a tutte le diverse componenti mediali, coinvolte.

La Polipoesia sta realizzando quel sogno sinestetico così ben definito da Bakhtin quando, a proposito dei formalisti europei, sosteneva che "lo scopo maggiore dell'arte è comprendere le qualità visuali, sonore e tattili". Il Manifesto della Polipoesia, apparso per la prima volta nel 1987 a Valencia, nell'ampio catalogo Tramesa de art en favor de la creativitat', recita così:

1. Solamente lo sviluppo delle nuove tecnologie segnerà il progredire della poesia sonora: i media elettronici e il computer sono e saranno i veri protagonisti.

E' il primo insegnamento che viene dai Futuristi, osservare l'avanzata del sapere tecnologico per essere pronti a piegarlo ai propri fini poetici. Lo sviluppo diacronico della poesia sonora indica che le impennate teoriche sono sempre state accompagnate da grandi rivoluzioni del medium , ciò è vero per il passaggio dalla poesia fonetica-lettrista alla poesia sonora, dalla poesia sonora alla videopoesia, dal reading di poesia all'azione poetica e alla Polipoesia. La famosa frase di McLuhan "il mezzo è il messaggio" non è applicabile alle ricerche di cui stiamo trattando, non basta avere accesso al più sofisticato ed attrezzato studio elettronico per uscirne con un buon poema sonoro, non è la qualità tecnologica che fa buono il prodotto, ma resta sempre il progetto globale del poema a recitare il ruolo discriminante. Non deve essere il puro tecnicismo a far affiorare il poema. E davanti a macchine potenti come gli ultimi computer in grado di riprodurre la voce umana e compiere, come abbiamo visto, pressoché qualsiasi operazione vocale anche su ridottissimi spazi di fonema, l'immediato pericolo è proprio quello di esserne schiacciati, e per non uscirne frastornati, è davvero necessaria la nitida planimetria teorica di quanto si vuole e non si vuole fare. Resta affascinante questa sfida tra il giocoliere della parola e il motore della parola. Un primario dovere del poeta di questo fine secolo. Succede sempre più spesso che siano gli ingegnieri costruttori di questi gioielli di scienza e tecnica, a chiamare il poeta sonoro per mettere alla prova' il computer, onde verificare le sue reali possibilità, la phantasia del poeta, estroverso software verso il matematico cervellone del computer, introverso hardware.

Dando per acquisite le sempre più perfette tecniche acustiche sperimentate durante gli spettacoli dal vivo, una tradizione che viene continuamente stimolata al miglioramento dalle stagioni dei grandi concerti musicali, anche la poesia, notoria cenerentola delle arti, ne trae i suoi indiretti vantaggi. Il poeta è messo nelle condizioni ideali per svolgere il proprio lavoro multimediale. Le sue impostazioni teoriche per quanto esse siano ardite e imprevedibili, sono sempre possibili e realizzabili.

Ciò che soltanto dieci anni fa, pareva un sogno o quanto meno luogo di difficile accesso, oggi è a disposizione di tutti sotto forma di home-computer, di campionatori, tastiere musicali, mixer casalinghi per mini montaggi, tavoli di registrazione. Esistono in commercio apparecchiature che sostituiscono il ricorso a studi professionali, e questo favorisce ancor più il poeta sonoro che può provare e riprovare il poema a proprio agio, usando è il caso di dire, nastro magnetico e microfono al posto di carta e penna, senza la pressante e costosa presenza in uno studio privato. La vera rivoluzione degli ultimi anni è senza dubbio lo sviluppo del mezzo televisivo. Sono lontanissimi i tempi del videoteppista teorizzato da Roberto Faenza, un libretto che ha fatto scuola negli anni Settanta, basandosi sul primo apparecchio portatile Sony a ripresa in bianco e nero, il famoso portapack. Chi è cresciuto come noi, con quelle esperienze da videogiornalismo d'assalto, oggi può solo deliziarsi con apparecchiature del tipo telecamere V8, capolavori elettronici di facile uso, maneggevoli e dalla alta resa professionale, e soprattutto alla portata di tutti. Il boom delle televisioni private, ha fatto fare passi da gigante alla videoelettronica, gli studi videotelevisivi sono dotati di potenti computer che consentono alla videoimmagine qualsiasi impossibile, fino a ieri, moto. Mirabili macchine dovute allo sviluppo del business della pubblicità, ma un po' di questa manna cade anche sulla poesia. La videopoesia, la Polipoesia non avrebbero ragione di esistere senza questo insostituibile apporto, nè tanto meno la videoambientazione di poesia sonora.

Va anche sfatata l'inaccessibilità di simili tesori. Da oltre dieci anni ci occupiamo di videopoesia, e possiamo testimoniare che quando il progetto è funzionale, quasi sempre arriva in porto, se ciò non avviene, la colpa è della proposta velleitaria o pressapochistica, che evidenzia più la smania di seguire una moda che una reale esigenza di usare il mezzo televisivo. Alla base di queste esperienze poetico-tecnologiche stanno alcune considerazioni che vanno sempre fatte: anzitutto, un reale bisogno di utilizzare il medium, dove per reale si deve intendere la necessità estetica del suo impiego, soprattutto forti dell'esaurimento o logoramento di quanto si sta facendo con i mezzi da sempre tradizionali. Il salto dalla pagina, l'abbandono dell'immagine stampata devono essere accompagnati da questa coscienza, e non basta. Va studiato alla perfezione il medium che si vuole impiegare, non si può demandare ad un tecnico, bisogna conoscere il medium per costringerlo ai propri fini poetici, altrimenti è il medium che sopraffa l'ansia creatrice, travolgendo e stravolgendo tutto. E' un'esperienza forte trovarsi al tavolo di montaggio della propria creatività poetica.

2. L'oggetto lingua deve essere sempre più indagato nei suoi minimi e massimi segmenti: la parola, elemento base della sperimentazione sonora, assume i connotati di multiparola, penetrata al suo interno e ricucita al suo esterno. La parola deve poter liberare le sue polivalenti sonorità.

La parola assomiglia ad una pentola a pressione, che una volta surriscaldata, raggiunge una temperatura-limite, che le rende possibile l'estromissione del vapore accumulato. "Explicitar, intensificar, concretizar a multivocidade que a palavra encerra" nelle parole di Ferreira Gullar. Trattasi delle sue sonorità, ma anche delle sue valenze polifunzionali, ovvero la carica intrinseca che ha di malleabilità . Si è scritto che Wittgenstein esige la "molteplicità dei movimenti" voluti dalla parola che deve essere piegata se non sottomessa completamente alla volontà del poeta. Non devono essere posti limiti a questa operazione, se non l'intenzionalità operativa del procedimento, la coscienza del fare.

Abbiamo già indicato sopra la estrema importanza di una analisi che tenga presente il segmento minimo (il fonema) come quello massimo (la parola stessa), le cui direzioni di lavoro possono portare o alla prevalenza dei significanti (nel caso del fonema) o al predominio del significato (nel caso della parola). Il corpo della parola, quando viene preso fin alle radici dei suoi fonemi, dei suoi componenti di base, perde la verginità nominale e di sostanza, si disperde in tanti pezzi, frantumi che vanno recuperati, e ridisposti secondo il disegno progettuale del poema sonoro. Dispersione o violazione, oltremodo voluti, praticati al fine di mettere la parola alle strette e verificare, una volta per tutte, se il suo muro è abbattibile o se presenta le caratteristiche dell'impraticabilità.

La duttilità della parola è un processo di mobilità, di estrema sensibilità verso le innumerevoli posizioni sia semantiche che a-semantiche, sia morfologiche che sintattiche che permettono alla parola stessa l'acquisizione di un trasformismo polifunzionale, appunto da parola in multiparola. In questo passaggio, non indolore, e per niente semplice, perchè necessita calcolo e senso di esecuzione non gratuito, si collocano gli arditi procedimenti di vivificazione della parola, schemi che la obbligano ad allargarsi con l'aggiunta di fonemi o sillabe, a ridursi, perdendo parti della sua integrità semantica, a svolgere un atto che non le spetterebbbe per stretta osservanza grammaticale, a proporsi con un diverso assetto sia accentuale che fonetico, a esibire imprevisti agganci con altre parole o loro parti, a inventarsi connessioni sulla base di similari sonorità, a calcare improvvisamente e foneticamente su un singolo fonema, a isolarsi astraendosi da un contesto situazionale . Ciò comporta, anzitutto, un tradimento delle attese di ascolto, aspettative di significato andate in fumo, perchè deluse se agognate secondo la logica acquisita della lingua. La multiparola esce dai canoni, corre questo rischio d'incomprensione, necessaria purificazione dalla scorie della ordinaria comunicazione.

Ma è a queste condizioni, ecco l'enorme vantaggio, la grande contropartita, la ricompensa, che si ottiene quel necessario surriscaldamento che mette la parola in grado di liberare le interne sonorità, quei gradi fonici accumulati dalla oppressione del significato, che hanno prodotto quella stagione estrema definita come rumorismo significante. Quando la parola è condotta fuori dal suo normale habitat assegnatole dalla grammatica, si ritrova a reinventarsi un ruolo, a ritrovare le assopite energie sonore, a riattivare rapporti di relazione linguistica, a torto, ritenuti impercorribili. Per certi versi, si tratta di una rinascita, di una nuova patina che la parola si stende sopra.

3. L'elaborazione del suono non ammette limiti, deve essere spinta fin oltre la soglia del puro rumorismo, un rumorismo significante: l'ambiguità sonora sia linguistica che vocale, ha senso se sfrutta a pieno l'apparato strumentale della bocca.

"La scaturigine della Voce è nelle profondità del corpo proprio.." scrive Corrado Bologna in Flatus Vocis', così come Zumthor nell'introduzione allo stesso libro ribadisce che "il suono è la materia più sottile della materia percettibile...il corpo è la sua matrice". Quindi la voce ha a che fare con la corporalità che noi intendiamo come sinonimo di forza vitale capace di azionare quelle leve travolgenti, per abbattere i limiti contenitori della lingua stessa, fino ad essere "grido inarticolabile dell'animalità", che tradotto in termini di poesia sonora corrisponde in modo ideale a rumorismo significante. Nichilismo sonoro ? Abbruttimento acustico ?

Abbiamo già notato come Benveniste abbia parlato di una lingua che si scagli contro se stessa e che si proponga di ricostruirsi partendo da una precisa esplosione. Dando per acquisita la posizione di Wittgenstein che riconosce l'utopicità, ovvero la non-esistenza della parola piena, quella parola capace di comunicare l'ineffabile, allora non ci resta che esibire la materia sonora grezza, una materia che tende confucianamente al silenzio perchè non ha gli immediati messaggi del comunicare alto, ma ha pur sempre il denotato di base linguistico, (il supporto strumentale della bocca, il caldo fiato). Genet invitava a considerare lo spessore esistente tra le parole, un vacuum, un interstizio, un intervallo altrettanto vitale quanto l'opera stessa, direbbe Cage. E proprio sul tema dello spazio tra le parole, è opportuno menzionare il dialogismo di Bakhtin, designando con esso, intanto la doppia appartenenza del discorso a un io e all'altro, ma a noi interessa in maniera particolare quella parte dove si teorizza il valore di ogni parola, inteso come intreccio di una parola sopra e sulla parola, una parola indirizzata all'altra: ed è la condizione d'appartenenza a questa polifonia, a questo spazio intertestuale che rende la parola, parola piena, appunto, secondo le precisazioni di Julia Kristeva, " it is only on condition that it (the dialogic) belongs to this polyphony, to this intertextual space, that the word is a full word". Ecco, sia la ricerca in stretti termini sonori, ma anche quella lineare dell'ultimo decennio, oscilla tra questi due estremi dell'uso della parola, tra l'impossibilità wittgenstiana di essere piena e la possibilità o necessità bakhtiana di esserla.

"Lo sviluppo dell'elettronica rende manifesta l'inadeguatezza del linguaggio", (Zumthor), in ogni caso l'elemento elettronico che assegna al prodotto finale una ridondante ambiguità, è comunque in grado di trattenere i non smarriti valori connotati, cioè a dire, l'anima del poeta non si perde lungo le circonvoluzioni dell'elettronica, anzi, onde evitare l'imboscata del solipsismo tecnonologico, lo spirito della voce deve essere considerata come il primo e insostituibile motore. La lezione di Plutarco secondo cui la voce del profeta è strumento che accenna, senza affermare, senza negare, funziona come perno deittico della Polipoesia.

La stagione del rumorismo significante non si è ancora conclusa, appare ancora lungo tutta la durata del poema sonoro o spunta a tratti come climax sonoro, una sorta di crescendo inarticolato, come nel nostro recente Poema a Colori' (1991), nè ha ancora esaurito il proprio narcisismo dell'esibizione di sè in quanto materiale allo stato brado, o materiale puro perchè il poeta sonoro, spogliato delle parole così limitanti, così gravide e gravose, può andare libero della zavorra dei significati direttamente al cuore della sua anima soprannaturale, un contatto cosmogonico, diremmo anche verbo-universale, strumento metafisico calato nel regno dell'assoluto. Falsa e ingannevole aporia sonora, finto blackout verbale, perchè è il rumore-parto proveniente dalle viscere delle corpo, il messaggio ancestrale. Non è un caso che nelle Upanisad il cantato recitativo sommesso fosse un'eiaculazione.

L'ambiguità si mantiene come tratto invidiabile, come mèta simbolo o intenzione di quanto sta dietro il paravento rumorico-vocale, lungo questo tragitto non c'è bisogno alcuno di parole, ("è il non detto che nutre la parola" recita un verso di Piero Bigongiari).

Siamo, pertanto, ad un suono ritmico, quel ritmo indistinto che è alla base della creazione poetica, quasi immersione interiore in quella che Chomsky ha chiamato acutamente "deep structure", senza voler risalire consciamente alla chiarezza della "surface structure". " Ce rythme s'imposait à moi, avec une sorte d'exigence. Il me semblait qu'il voulût prendre un corps, arriver à la perfection de l'être. Mais il ne pouvait devenir plus net à ma conscience... la forme rythmique constituant à ce moment l'unique condition d'admission - d'émission " (Paul Valery).

4. Il recupero della sensibilità del tempo (il minuto, il secondo), al di fuori dei canoni dell'armonia e della disarmonia, perchè solo il montaggio è il giusto parametro di sintesi ed equilibrio.

Nella poesia lineare l'effetto di un impatto comunicativo è una derivazione della sua lunghezza: Pound riduce a un verso una poesia che, scritta anni prima, aveva un'estensione di decine e decine di versi, così Poe prevedeva sia la durata del tempo di lettura del lettore, sia il limite dei cento versi per "The raven", e non è un caso che il haiku articoli su tre versi tutto il suo peso concettual-universale, oppure il limerick stesso basato sullo schema fisso dei cinque versi. A maggior ragione, quando oltre l'occhio è coinvolto anche l'udito nell'atto di fruizione, vanno intensificati gli sforzi per bilanciare dentro le coordinate deittiche i flussi creativi, misurando i tasselli da inserire via via che il poema sonoro cresce. Un minuto di lettura non equivale ad un minuto di ascolto, considerando che quasi mai chi ascolta poesia sonora, ha un supporto grafico-didascalico, come avviene, ad esempio, per il libretto nell'opera lirica. Il poema sonoro non ha, come è ovvio, una trama da seguire ma possiede una propria tessitura, uno svolgimento, o per meglio dire, mutuando gli insegnamenti sul comico provenienti da Stanlio e Ollio, raccolti da Jerry Lewis, un inizio, uno sviluppo centrale e una fine. Per certi versi, ma in miniatura, vengono ossequiate le regole aristoteliche per lo sviluppo della tragedia, o quelle tipiche della stesura di un romanzo ottocentesco, con tanto di climax e anticlimax. Va da sè che simile impalcatura necessita una piena consapevolezza della nozione di tempo, per non debordare in eccessi che annullano l'attesa o la pazienza del ricevente, e, soprattutto per non cedere alle insidie del testo sonoro che se troppo involuto o poco elaborato finisce per bloccarsi nell'aporia o scivolare verso una piatta ovvietà. Il messaggio verifica la propria intensità sulla durata. E' vero che "qualunque cosa facciamo, finisce sempre per essere melodica", ammoniva Christian Wolff, in riferimento alla musica concreta o alla musica elettronica. Il rischio è percebibile anche in poesia sonora, dove la stagione del rumorismo significante, nonostante non si prefiggesse come esito finale d'ascolto l'eufonia nè tanto meno la cacofonia, conserva, a dispetto di certe estremizzazioni acustiche, un evidente tratto melodico.

"Au-delà des harmonies - scrive Zumthor - au-delà des mélodies d'une musiques représentative, la poésie sonore reste comme hèrèditairment marquée par les deux désirs: désir de retour à l'oral chez les poètes; de retour au parlè chez les musiciens". Il procedimento del poema sonoro non deve contemplare i riferimenti tipici del codice musicale, armonia-disarmonia, perchè le parole o i fonemi non si comportano, come già detto, alla stessa stregua delle note. La loro sequenza si forma attraverso una miriade di incastri, che fanno leva sull'ampia gamma della vocalità e della oralità ma che attingono a piene mani all'inesauribile apparato della retorica.

Ecco una serie di figure che vanno per la maggiore: la ripetizione fa la parte dell'asso pigliatutto nelle sue varie formulazioni del tipo epìfora, ripetizione di una parola o di gruppi di parole, epizèusi, ripetizione di più parole, di sonorità simili, anche epanadiplòsi che ripete all'inizio e alla fine di un segmento sonoro la stessa parola, epanalessi, l'uso della ripetizione come rafforzamento, la stessa anàfora che ripete la stessa parola all'inizio di ogni sequenza, o la diàfora che ripete la stessa parola ma con un nuovo significato, una nuova sfumatura di senso; poliptòto, quando si ripete la stessa radice di una parola con differenti desinenze flessionali, con evidenti cambi sintattici, ma il livello sintagmatico coinvolge anche il livello paradigmatico, e a proposito di intervento sulla frase vanno segnalati il metatasso che modifica inevitabilmente la struttura della frase, l'ipèrbato come inversione di elementi, e in questo senso anche il chiasmo, poi il polisìndeto che bandisce le congiunzioni, lo stesso asindeto contro la catena sintattica, lo zeugma da cui dipendono, come verbo, più termini, o l'ellissi che elimina parti di una frase, o anche la litote come attenuazione o il pleonasmo come ridondanza; infine qualche accenno di retorica in funzione fonetica, per esempio l'omofonìa, l'identità fonica, anche l'omografia, identità formale con una pronucia diversa, omoteleuto con l'identità fonica finale, ovvi esempi d'isotopìa quali la rima o l'allitterazione, poi paragramma con la minima variante di un grafema, paronomasia come spostamento di senso con lievi modifiche fonetiche, per finire con tmesi da intendere come separazione ed epentesi che è l'inserzione di un fonema dentro il corpo codificato della parola e da qui la breccia sul mondo dei neologismi.

La nozione di montaggio come avvicinamento di due entità linguistiche diverse e sociologicamente e stilisticamente lontane, risale alle posizioni simultaneiste dei primi del secolo, al famoso metodo di Apollinaire di "travailler par zone", Zone' è il poema che apre la raccolta Alcools' (1913), laddove scrive Lora Totino "frammenti di discorsi captati quasi a caso, sono fissati e giustapposti senza apparente connessione", fino ai diversi piani linguistici, ivi compreso l'ideogramma dei Cantos poundiani, financo il Ballestrini dei Novissimi o il Gadda del Pasticciaccio.

Il montaggio sonoro, il taglio, un collage fonetico consente una maggiore velocizzazione del poema, molto oltre il ritmo di successione di immagini che un Rimbaud, per esempio, pur aveva nonostante il poetare scritto. Il montaggio crea l'andamento, è l'andamento significante del poema, annulla i tempi morti, mantiene viva l'attenzione, allerta la tensione, vivifica il tessuto strutturale del poema, crea l'impossibile spazio, apre l'imprevista associazione, agisce per coppia moltiplicando. Il montaggio sonoro è una necessità, un'urgenza contro la classicità della poesia sonora.

5. La lingua è ritmo, i valori tonali sono reali vettori di significato: prima l'atto di razionalità, poi l'atto di emotività.

"Il ritmo è l'autentica forza e realtà dell'individuo" (G.Marchianò), atteggiamento corporale necessario per capire la funzione performante della Polipoesia. Accanto, come realtà sostanziale e come energia, aggiunge Cassirer, va posta la parola nella sua funzione fondamentale e costruttiva di attività spirituale, ma già Aristotele aveva appurato che "i suoni emessi dalla voce sono i simboli degli stati dell'anima".

La ritmicità ha tenuto a battesimo i tentativi di neo-linguaggi come quello zaum, a ragione transmentale, in virtù del contatto metafisico, ma anche intere stagioni di canto folklorico che ha messo da parte senza esitazione alcuna la parola piena di significato, come è verificabile soprattutto nella cultura degli indiani Navajo e Seneca, o nelle canzoni dei cantori slavi. Insegnamento folklorico a parte, "con l'aiuto della tonalità, si può fissare non soltanto la posizione delle parti ma anche la loro forma" ricordava Schoenberg. Di fatto, il peso del poema sonoro grava sulla ruota della tonalità, dell'impulso voco-personale, per veicolare il senso del proprio essere, facendo leva sugli appositi addentellati della durata, dell'altezza, dell'ampiezza e dell'intensità, perchè il suono fonetico finisce per subire un trattamento simile al suono musicale. Distinti i due raggi d'azione, quello poetico e quello musicale, e fatte le dovute proporzioni, vale per la poesia sonora quanto lo stesso Schoenberg diceva su Webern, "questi pezzi saranno compresi solo da chi intenda che con suoni è possibile esprimere soltanto qualcosa di esprimibile con suoni". Il ritmo è la pulsione, il battito, lo scandire l'ingresso e l'uscita delle possibili connessioni della voce con altri media. A differenza di Higgins che pretendeva l'assenza di regole quando l'Happening si doveva sviluppare come mezzo intermedium, noi optiamo con Kandinsky per la necessità di atti di razionalità, anzi troviamo pieno accordo con un artista dell'arte esatta come Karl Gerstner quando afferma, "amo non solo programmare i miei quadri ma mostrare anche il programma", e ancor prima non era stato proprio Novalis a chiedersi se anche il linguaggio della matematica non fosse in ultima istanza poesia ?

Lasciando alle spalle le pur importanti innovazioni Dada, il poema sonoro e l'atto polipoetico sono la diretta conseguenza di scelte teoretiche consapevolmente prese, soprattutto laddove la vocalità, sempre intesa nel senso zumthoriano, si relaziona con altri media. Ricompare l'ibridazione mcluhaniana, e la poesia sonora che include elementi musicali, visuali, gestuali, oggettuali addiviene altro, addiviene Polipoesia. L'atto di razionalità è invocato dapprima sul corpo della lingua, intervento freddo e a freddo, teso a considerare l'universo degli elementi linguistici (dal fonema alla parola) come un inesauribile puzzle da sistemare e risistemare secondo gli ordini della propria poetica, ma ancor più razionale deve essere la griglia costitutiva del complesso dei rapporti multimediali.

Il polipoeta sa come, dove, perchè e quando quel tratto musicale, quella immagine, quel particolare rumore, quell'oggetto deve fare la sua apparizione o scomparire dallo story-board. La Polipoesia esiste come sistema di relazioni tra la poesia sonora nel ruolo di calamita verso gli altri media, esattamente come le entità linguistiche, nell'accezione acquisita dagli studi di Benveniste, si lasciano definire dentro l'organico sistema delle reciproche relazioni della lingua.

Hitchcock stabiliva le sue regie a tavolino, e lasciava poi ad altri il faticoso lavoro del set, Bergman, invece, pur con le idee già definite, concedeva un venti per cento all'improvvisazione del si gira. Ecco perchè la porta dell'emotività va sempre tenuta aperta, ci sono poemi sonori che funzionano se ascoltati nella calma del proprio studio, mentre si rivelano veri fallimenti nell'atto live con un pubblico, e viceversa. Non c'è nulla che valga come un'esecuzione pubblica per verificare a fondo la validità del poema, ("sound poetry is a performing art" ricorda Larry Wendt), il che non significa modificare assolutamente qualcosa in relazione al gusto del pubblico, piuttosto tenere nel giusto conto quel rapporto di andata-ritorno tra poeta e pubblico, quella miscela esplosiva che è la simbiosi tra mittente e destinatario tipica del messaggio secondo i termini cibernetici. Dario Fo ha ragione quando fa notare che una buona rappresentazione è frutto anche di un buon pubblico. Fare lo spettacolo è un'opera di seduzione del pubblico, dare per avere, il buon esito dipende da entrambe le componenti. Gli elementi fàtici, così ben definiti da Higgins, ma ancor prima dal polacco Bronislaw Malinowski che nel 1923 ne aveva dato un esauriente catalogo secondo il principio che ogni enunciato deriva il proprio significato dal contesto in cui è usato, variano da performance a performance, mentre resta invariabilmente fissa la struttura estetica, salvo le eventuali modifiche conseguenza dell'atto d'emotività, di cui si è detto.

L'atto polipoetico nel sua avvenire prossemico è ascrivibile alla categoria dei mezzi caldi, ovvero quei mezzi già densi d'attività nel loro polo generatore, per cui diviene difficile se non impossibile aggiungere altra attività da parte del fruitore, che si trova schiacciato da quest'ondata sonora. Risultano pertanto azzardate tutte quelle manifestazioni che hanno avuto lo scopo dichiarato e premeditato di coinvolgere attivamente il pubblico. Il poeta fa il suo mestiere, e il pubblico fa il proprio, che è quello di ascoltare, poi è libero di applaudire o fischiare, d'andarsene o rimanere, d'assopirsi o seguire attentamente. In ogni caso non va sottovalutata l'osservazione di Ong, "non si può emettere suono senza esercitare potere", che altro non è che il potere carismatico del poeta alla ribalta, il potere caldo e attivo dei suoi suoni, il poeta è là, e sembra dire, ascoltami, "ho una grande verità da trasmettere" e fa di tutto per attirare su di sè l'attenzione del pubblico; è la grande pratica della Persuasione così com'era stata concepita, per esempio da Montaigne, che ricorreva ad un particolare tono di voce per ferire, aggredire il proprio ascoltatore, la voce come strumento contundente, la voce come ascia di guerra, " il suono ci interessa, ci colpisce, ci appassiona di più perchè ci penetra " (Derrida).

6. La Polipoesia è concepita e realizzata per lo spettacolo dal vivo, si affida alla poesia sonora come prima donna o punto di partenza per rapportarsi con: la musicalità (accompagnamento, linea ritmica), la mimica, il gesto, la danza (interpretazione, ampliamento, integrazione del poema sonoro), l'immagine (televisiva, diapositiva, come associazione, spiegazione, ridondanza, alternativa), la luce, lo spazio, i costumi, gli oggetti.

La Polipoesia, prendendo a prestito due concetti tipici di Ong, ricupera quanto di buono ha l'oralità primaria, riscattandola in piena epoca di oralità secondaria. Tenendo come riferimento gerarchico la poesia sonora, è ben consapevole della sua supremazia nell'accogliere l'apporto degli altri media quali musica, immagine, movimento, soprattutto, inserendoli nel proprio tessuto in appropriate dosi, tali da non snaturare mai il tratto principe della poesia sonora che ne è guida indiscussa. In questo senso, non ha ragione d'essere una rivendicazione tout court di totalità assoluta, nè si tratta di mescolare due sapori diversi per avere un terzo sapore, quanto di tenere sempre vivo il gusto principale, tagliato ma mai radicalmente modificato dagli altri interventi. In altre parole non si tratta di accumulare, o peggio ancora di assommare elementi su elementi, ma di graduare razionalmente, attraverso precisi calcoli estetici, attraverso prestabiliti moduli, l'ingresso e l'uscita di questo traffico polipoetico, regolato sempre dal semaforo dei tempi e dei modi della poesia sonora. La Polipoesia è il sistema dentro il quale la poesia sonora contrastivamente si lascia definire prima come teoria e poi come pratica.

"Dal linguaggio articolato -scrive Zumthor- risalire a quell'energia che la sottende, intraprendere uno sforzo veramente vitale per captare ciò che c'è nell'opera durante la genesi delle parole e delle frasi: un qualcosa d'indefinibile, udibile pertanto tangibile, penetrante, perfettamente concreto. Tale è la Polipoesia di Enzo Minarelli, rivendicazione di totalità, dentro la libertà ontologica dei suoni; tenace volontà di suscitare un altro linguaggio ".

La già citata opera Quarry' (1976) cui aggiungeremmo Ruins' (1980) della Meredith Monk, pur inserite dentro ad una logica teatrale, nel senso di un plot anche minimo ma presente, un apparato scenico, un gruppo di attori con diversi ruoli assegnati, mantiene molto alta la sperimentazione vocale, e in alcuni tratti dei due spettacoli, è evidente la scala gerarchica dei valori teatrali, con netto predominio della voce. Ma è soprattutto Arganchulla' (1986) del catalano Carlos Santos che ottiene esiti assoluti. Nonostante la sua origine di musicista, nonostante la sua essenza tout court sperimentale, sa attuare un approccio alla voce, molto ampio, dal timbro lirico a quello della poesia sonora, dal recitato al cantato. La sua grande abilità consiste nel proporre uno spettacolo che mantiene il ritmo per scene e atti di una tipica opera teatrale, ma ne conserva solo l'involucro, la copertura, perchè la sostanza è fatta da un sonoro che spazia nelle più variegate tecniche, sonoro sempre a sostegno di quanto avviene in scena, mai straniante, ma pertinente. I personaggi sembrano recitare, invece si fanno portatori di una vocalità imprevedibile; è inverosimile ascoltare poemi sonori dentro il contesto teatrale di un dialogo o di un monologo, con tanto di trucchi scenici impressionanti, come l'acqua-pipì della madonna che letteralmente inonda ad libitum la scena o la testa parlante che spunta fuori improvvisa da sotto il palcoscenico. La sonorità resta il veicolo trainante, la colla che tiene unita con coerenza e gradualità tanti elementi disparati. Lo stesso Santos, attore in scena, è un crogiuolo multiforme, un impasto di Fregoli, di Stratos, di Totò, mentre come regista ha dei tratti che richiamano Kantor, il senso d'omogeneità colletiva dell'Odin Teatret di Eugenio Barba, o anche qualche esperienza del teatro sperimentale italiano anni Settanta, (Perlini, Ricci, Sepe, Nanni).

In tema ancora di Polipoesia, il portoghese Aguiar crea dal vivo, pezzo per pezzo un poema visual-murale, seguendo un ritmo sonoro di base, lo spettatore-ascoltatore ha tutto il tempo di riflettere su questa lenta costruzione, scandita dal movimento stesso del poeta che si piega a raccogliere le lettere, cammina avanti e indietro, un continuo andirivieni tra il ripostiglio degli oggetti da esibire e il luogo del poema per fissare alla parete la vocale o la consonante o il segno d'interiezione o d'interpunzione voluto. Lo spagnolo Ferrando crea azioni che tengono il suono in stato di privilegio, un controllo serrato sull'uso degli oggetti (un libro dai fogli particolarmente crocchianti, note musicali di carta colorata fatte svolazzare, intrecci di corda attorno al corpo) per una messinscena che quasi sempre possiede un climax, peraltro ben provocato e sostenuto dalla voce stessa, come avviene in Quemar la voz' (1989), dove il crescendo sia sonoro che performativo è dato dal tentativo di bruciare la voce, con fuoco che arde sui leggii e voce che si autoriduce dalla frase alla parola, dalla sillaba al minimo focherello del fonema, dall'urlo al sospiro soffocato. La messicana Elenes oltre ad inserire gli elementi già indicati, amplia ancora con l'inserzione del video; l'immagine televisiva entra come parte integrante, un tassello tecnologico in più, dentro un insieme che vede sempre la sperimentazione vocale, che nel suo caso è invece sinteticamente prodotta al computer, scoccare i ritmi basilari del poema. L'italiano Mori ha tentato sia il percorso teatrale che quello della singola performance, partendo sempre da testi lineari sfruttati oralmente verso oggetti che emettono suoni, come la radio, un legno segato. Chi fa un uso magistrale dell'oggettistica in scena è la californiana Anna Homler, che sa esibire con il giusto tono della pertinenza, orologi, campanelli, guanti, collanine, e quant'altro ritiene corretto far risuonare in relazione al suo tipico linguaggio, inventato di sana pianta, uno zaum, un idioletto messico-californiano, denso di dolcezza e sensualità. Il canadese Martel allestisce degli eventi coinvolgenti sia per carica sociale che energetica, letterali macchine spettacolari dove la sua voce assume spesso i toni del comizio o del raduno politico; il francese Pey, sfruttando una grande presenza scenica, riesce a mettere in moto la macchina del proprio corpo con un perfetto coordinamento tra i ritmi vocali e i ritmi dei suoi bastoni, infine l'ungherese Szkarosi, dotato di una voce forte, imponente, la usa per convincenti approcci che includono una girandola di oggetti, gioco intelligenti di luci, e cura maniacale anche verso i costumi.

L'approccio teorico alla totalità può iniziare con Lévi-Strauss, "il pensiero selvaggio, cioè orale, è totalizzante", l'oralità quindi già sarebbe sufficiente a garantire la totalità, senza dimenticare che "l'intero corpo è al lavoro" secondo quanto l'inglese Orderic Vitalis, nel lontano Medio Evo, predicava in riferimento all'atto orale. Mentre Barthes propende a ricollegarsi con Lévi-Strauss, "la parola poetica non può mai essere falsa perchè è totale, brilla di una libertà infinita", ripetendo quanto già ribadito dalla Kristeva "è soltanto nel linguaggio poetico che si realizza la totalità".

Se si vuole onestamente affrontare la questione della totalità poetica, le citazioni preliminari sono importanti ma non bastano, hanno il limite di essere troppo in odore di oralità, noi avremmo detto vocalità, senza aprirsi sul terreno dei media, che è invece, necessario, per verificare almeno la parola poetica fuori dal suo contesto della quotidiana comunicazione. Da questo punto di vista si presenta carente anche la teorizzazione, per altri versi formidabile, di Walter Gropius che nel suo Manifesto del 1923 affidava alla Bauhaus, oltre l'intento di fare un'arte viva, il compito di stabilire una armonia tra le differenti varietà di arte, tra tutte le discipline artigianali e artistiche, funzionali ad un concetto di costruzione.

Una valida impostazione teorica, credibile e praticabile, in termini di totalità è stata data a più riprese da Bakhtin, ed a quella noi ci riferiremo. Partendo, già lo si è scritto sopra, da "lo scopo maggiore dell'arte contemporanea, è comprendere le qualità visuali, sonore e tattili", attraverso quanto "chiamiamo momento tecnico dell'arte, tutto ciò che è assolutamente indispensabile per la creazione dell'opera d'arte nella sua determinatezza scientifico-naturalistica o linguistica", per approdare a "prima di tutto si deve intendere l'oggetto estetico sinteticamente nella sua totalità e si deve intendere la forma, il contenuto nel loro essenziale e necessario rapporto reciproco". Quest'ultima affermazione ha un vago rimando dal sapore fenomelogico, almeno nella stretta accezione anceschiana . Chi fa molto uso del termine totalità, è Adriano Spatola nel suo Verso la poesia totale', impostato consapevolmente proprio sotto l'influsso delle teorie fenomenologiche di Anceschi, soprattutto laddove quest'ultimo mutua da Viggo Brondal il concetto di struttura che "non è una combinazione di elementi, ma un tutto formato da fenomeni solidali, dove uno dipende dall'altro attraverso le loro relazioni". Il libro di Spatola risulta per certa maniera ancora insuperato, e esibisce le credenziali di una indiscussa tappa della sperimentazione poetica, forse l'unico punto discutibile è proprio la tanto sbandierata totalità. Vediamone perchè: come premessa va appuntata la distinzione tra mixed media e intermedia operata da Higgins; nei mixed media sono sempre perfettamente riconoscibili i media coinvolti, sempre separati come nell'opera lirica o in una canzone, mentre nei prodotti intermedia, "there is a conceptual fusion" (il corsivo è nostro). Il concetto di fusione chiama direttamente in causa una non sempre ricordata affermazione di Mallarmé, che seppur limitata al campo visivo ben lo rappresenta: "instituire una relazione esatta tra le immagini, in modo che ne derivi da lì un terzo aspetto fusible" (il corsivo è nostro). Su questa linea anche i poeti del Cabaret Voltaire che si attestarono su un modulo inteso come fusione di poesia parlata, musica e teatro, ponendo il poema sonoro come punto focale di questi eventi, tipicamente inter-media. E ancora, Maurice Lemaìtre ha dichiarato che scopo del lettrismo era "fondere composizioni che integrassero musica, poesia, teatro e altre discipline".

Di Poëzie in fusie' aveva già parlato anche De Vree, sin dagli anni Sessanta, con elementi concreti, visuali e fonici in uno stato "fusioneel", senza peraltro precisare nè come nè quanto tale "fusione" avvenisse. Un valido antecedente, a parte le scontate intuizioni di origine sia futurista che simultnaiesta, (e a proposito di quest'ultima idea non è un caso che il nome di Barzun ricorra proprio in un verso dei Pisan Cantos': "Monsieur Barzun had, indubitably, an idea, about anno"), viene ancora da Pound che in Hugh Selwyn Mauberly' scrive un'intera stanza molto illuminante al riguardo :

"Poetry, her border of ideas,
The edge, uncertain, but a means of blending
With other strata
Where the lower and higher have ending;"

Anche il Vorticismo, basato sul vortex, era teso all'esplorazione della complessità psichica dell'immagine poetica, relazionata ad effetti di simultaneità. Non solo, ma nel 1951 Northrop Frye, in The Archetypes of Literature', scrive, "literature seems to be intermediate between music and painting: its words form rhythms which approach a musical sequence of sounds at one of its boundaries, and form patterns which approach the hieroglyphic or pictorial image at the other. The attempts to get as near to these boundaries as possible, form the main body of what is called experimental writing".

Artaud, in una conferenza alla Sorbona, il 10 dicembre del 1931, parlando delle possibili aperture che il linguaggio dei sensi deve avere, suggerisce che "tale linguaggio deve poter sviluppare tutte le sue conseguenze intellettuali su tutti i piani e in tutte le direzioni possibili. Si può così sostituire alla poesia del linguaggio una poesia dello spazio, che assume tutti quegli aspetti derivanti dai mezzi utilizzabili su un palcoscenico: la musica, la danza, la plastica, la pantomima, la mimica, la gesticolazione, le intonazioni, l'architettura, l'illuminazione e la scenografia. Ognuno di questi mezzi ha una propria poesia intrinseca, e nello stesso tempo una sorta di poesia ironica che nasce dal modo in cui esso si fonde con gli altri mezzi espressivi" (il corsivo è nostro).

Dick Higgins, forte di questi supporti teorici, nel 1965 lancia il suo Intermedia Manifesto', che prende a prestito la parola intermedia' dagli scritti di S.T.Coleridge, ("arte è qualità intermedia fra il pensiero e la cosa, unione e riconciliazione di ciò che è natura con ciò che è esclusivamente umano"). Si fa carico del loro portato e si spinge oltre azzardando che "happening developed as an intermedium, it is not governed by rules", ("a single improvised event", direbbe Rothenberg, anche se Michael Kirby ha provveduto a distinguere l'Happening dall'Event) oppure, ed è il discorso che qui più interessa "sound poetry has music penetrating to the very core of the poem's being", il che non sposta di molto il livello di discussione, lasciando l'impressione più di una constatazione che di una teorizzazizone vera e propria, impressione, tra l'altro, derivata da John Cage, la poesia è tale "perchè permette ad elementi musicali (tempo e suono) di introdursi nel mondo delle parole". A volte pare che il concetto di intermedia sia solo riduttivamente applicato alla poesia visuale, "the visual element (painting) is fused conceptually with the words". E in ogni caso Higgins è conscio di questa riduzione quando auspica che i poeti sonori devono ancora affrontare o meglio esplorare il vero terreno intermedia, andando a rapportarsi con linguistic analysis', sculpture' e the environment'. Spatola, per risolvere infine la questione che ci siamo posti sopra, si mantiene su questa lunghezza d'onda, e nei passaggi cruciali del libro citato, in stretti termini totali', si affida ad un vago e troppo generalizzato "la nuova poesia cerca di farsi medium totale, di inglobare teatro, fotografia, musica, pittura, arte tipografica, tecniche cinematografiche e ogni altro aspetto della cultura..". E quando si tratta di teorizzare effettivamente la totalità, si fa puntello di alcune argomentazioni prelevate da Luciano Nanni, " trattandosi di una totalità istituita dalla fruizione, tale totalità non potrà che configurarsi anch'essa come occorrenza sinergica...". Il che rimanda per l'ennesima volta al cocktail dei linguaggi, alla loro miscelazione, a quell'aspetto gestaltico di livellazione contestuale degli elementi, dimenticando, invece, quello che è, come si è visto, l'aspetto gerarchico della Polipoesia, ovvero la netta prevalenza della poesia sonora sugli altri componenti del prodotto finale, il suo irrinunciabile ruolo guida, il faro che illumina. La poesia sonora mantiene le proprie caratteristiche strutturali, nonostante il continuo dialogo o l'apporto degli altri media, perchè è l'intelaiatura forte della voce stessa con le sue sperimentazioni a reggere simili ingressi. Ciò che Jakobson chiamava dominante dentro la struttura di un testo poetico, noi la applichiamo alla Polipoesia che è interamente organizzata a partire dalla dominante-poesia sonora, che è garante dell'operazione in toto, dà coesione strutturale, e soprattutto, ciò che più conta, gerarchizza tutti gli elementi, divenendo un indice che governa, determina e trasforma gli altri. Oseremmo richiamare, quasi invocare con Auerbach lo "spirito ordinatore" (ectropia) in questo processo di gerarchizzazione contro l'entropia della confusione o della fusione.

La poesia sonora è nella sua essenza vocalità, uno status ideale dal punto di vista operativo, ricco di elementi intrinseci (si pensi al ritmo, alle diverse tonalità, ai significati) che le consentono mirate aperture, e per certi versi, necessarie, perchè se si vuole che l'opera della Polipoesia sia completa, scontata è l'ammissione che la poesia sonora debba recitare il ruolo del protagonista, ma altrettanto vero il fatto che il lotto dei deuteragonisti deve fare la propria parte. Abbiamo cercato, a più riprese, di documentare come tali inserimenti avvengano, prendendo le distanze da certo procedere istintivo, e schierandoci nettamente verso una posizione che sia non proprio basata su una concezione matematica, per riprendere un famoso concetto di Max Bill, ma senza dubbio orientata, meglio supportata da un preciso ragionare; non ci nascondiamo che qui siamo giunti al nodo centrale della creazione, nodo che per forza di cose chiama in causa anche l'intuizione, ovvero quella parte irrazionale che difficilmente si può quantificare, quel quid che fa scattare certi meccanismi creativi. Tali processi, prettamente intuitivi o deduttivi in proporzione al materiale di base già in possesso, si sviluppano attraverso canali razionali appositamente predisposti, la creatività corre sulle gambe della razionalità, diremmo in sintesi, per coniare un anomalo ossimoro, una razionalità creativa. Nel già citato nostro Poema', la scelta della parola poema appartiene alla sfera razionale (anzitutto perchè contiene i fonemi e-m corrispondenti alle iniziali del nostro nome e cognome, poi il valore semantico, l'incipit in po, la desinenza ma), mentre è tipicamente creativa la scelta, per esempio di svolgere l'orgasmo, scegliendo il fonema finale a come metonimia sonora dell'atto sessuale. Ancora assegnabile alla creatività è la triplice ripetizione continua della parola poema come mimesi sonora di un proiettile, mentre razionali sono i tempi di esecuzione, la durata di queste sezioni. Fin qui il poema è sonoro, ma inesorabilmente addiviene Polipoesia quando viene presa la decisione di includere un ritmo musicale per tutta la sua durata, un ritmo ossessivamente iterativo, ed è ancor di più Polipoesia quando durante la performance, per esempio, del poema-proiettile, la mano mima l'atto di premere il grilletto di una rivoltella. A completare il quadro, sono chiamati razionalmente sia l'immagine-video che creativamente interpreta in maniera visiva, per esempio, l'orgasmo, sia l'immagine fissa, via diapositiva che rafforza, staticamente qualche passaggio semantico del testo sonoro.

La Polipoesia parte con un suono-idea e arriva con un suono-azione, a intendere il necessario passaggio nell'evento, partendo da un forte assunto teorico che la guida e la determina; da questo punto di vista, la nostra definizione di Polipoesia ha poco o nulla a che fare con quelle concezioni basate su un approccio istintivo, già lo abbiamo scritto, ma lo ribadiamo. Per esempio, fatte le dovute proporzioni, un Beuys che ritiene di dover fare la performance, per risolvere il problema della performance stessa, perchè altrimenti non avrebbe senso farla se tutto è già chiaro all'inizio, non ci trova d'accordo perchè una poesia sonora che va verso il pubblico senza un adeguato sostegno preliminare di teoria, fallisce inevitabilmente, come fallisce un approccio frutto solo e soltanto di improvvisazione. E qui si avverte, forse in maniera decisiva, la differenza tra performance d'arte e Polipoesia, anche se entrambe si aspettano molto dal pubblico, e in questo senso siamo d'accordo con Philip Glass quando dice "we depend on the audience to complete the work" (la frase è riferita al già citato Einstein on the beach' di Robert Wilson), perchè lo spettatore-ascoltatore deve far funzionare il proprio essere intellettivo per confrontarsi con quanto riceve. Perchè è fuor di dubbio che riceve, e non è condivisibile per nessuma ragione la definizione ammazza-significato di Jameson che semplicemente assegna al lavoro multimediale uno zero assoluto, "they ought not to have any meaning at all in the thematic sense".


© Copyright 1996 by 3ViTre Archive of Polypoetry - All rights reserved
© Copyright 1996 di 3ViTre Archivio di Polipoesia - Tutti i diritti riservati