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ENZO MINARELLI

Visto da Renato Barilli

La qualifica che più compete a Enzo Minarelli è quella di poeta, magari risalendo nell’occasione al significato etimologico della parola, per cui si tratterebbe di un “fabbricatore” col materiale più nobile a disposizione dell’uomo qual è la parola, nei suoi due volti, sonoro e grafico.Ma intanto c’è da chiedersi se oggi i “poeti” più degni di questo nome non siano piuttosto dei “distruttori’, nei confronti del materiale verbale. Piuttosto che accumulare pazientemente le varie briciole, lettera su lettera, sillaba dopo sillaba, fino a costruire frasi, discorsi sensati, sembra che il loro compito sia di “decostruire” se si vuole usare un termine di vasta diffusione. Come dei bambini impazienti e irriverenti, i poeti di oggi vanno a vedere di cosa è fatto il discorso verbale, lo sminuzzano, lo tritano, lo riducono a brandelli via via più minuti al punto che, oltre un certo limite, non sopravvive neppure la riconoscibilità dell’elemento minimale dell’espressione linguistica, cioè la lettera: si supera spesso e volentieri l’ultima soglia di pertinenza del linguaggio, per avventurarsi nel mare aperto di una materialità affondata nell’informe. Tutto questo, già si ricordava sopra, viene esperito sia a livello sonoro che acustico. A dire il vero, i poeti di oggi sono orgogliosi di recuperare le caratteristiche di un esercizio linguistico originario, e dunque affidato in primo luogo al flusso sonoro, alla parola parlata, e di conseguenza a un relativo gestire, a un accompaniamento somatico che a sua volta sfocia nella “performance”. Minarelli non fa certo eccezione, ponendosi anzi in prima fila, sulla strada di un tale recupero delle origini: se si chiede a lui come voglia essere qualificato, certo la sua scelta prima e spontanea va a favore della poesia fonetica: egli vuole essere visto come colui che, armato di una dotazione somatica e fisiologica di primo grado, si presenta su una qualsivoglia ribalta per declamare, esternare, produrre atti di fonazione. Ma d’altra parte Minarelli non può certo dimenticare l’inevitabile correlazione che esiste tra la manifestazione fonica del parlare e il suo concretarsi in tracce grafiche; a questo modo si apre per lui anche l’orizzonte del visivo, ovvero egli pratica strumenti, mezzi, tecniche volti a far emergere qualcosa che si situa nel territorio proprio dell’arte. Naturalmente, c’è una piena rispondenza, da un ambito all’altro, e così se il poeta sonoro parcellizza, frammenta la catena acustica, ne evidenzia spezzoni minimali, spingendosi oltre la soglia del rumore, altrettanto fa il poeta “visivo” che è in lui, pronto cioè a discendere verso livelli sempre più informi, in cui la materia dell’espressione si fa sempre più caotica e incontrollabile. Oggi, poi, qualsiasi operatore estetico, ovunque si muova, non può rifiutare l’aiuto dei novissimi ritrovati tecnologici; anzi il grande recupero del suono non può prescindere dalla registrazione elettromagnetica, senza di questa, neanche quello avrebbe potuto essere messo in atto. La stessa cosa si deve ripetere per la dimensione visiva, gli artisti di oggi si affidano sempre più di frequente al video, per frugare anch’essi nella materia plastica, per passarla alla moviola. Ed è poi possibile, o addirittura obbligatorio fondere i due canali di apporto sensoriale, siamo cioè abituati a fruire di immagini eclettiche che si recano dietro la loro dimensione sonora in un tutto inestricabile. Avvalendosi di queste prerogative, il poeta Minarelli, fonetico e visivo, con l’inevitabile obiettivo di totalizzare questi due aspetti portandoli a fusione, suole allestire dei sistemi di video, di solito di numero ternario, da tre a nove, che vengono a costituire come altrettante finestre aperte sul cuore della materia, quasi dei punti privilegiati di osservazione o di rilevamento, delle “spie”, dei luoghi di monitoraggio. Fluiscono i suoni sbocconcellati, e intanto in ciascuna di quelle finestre si agitano reperti materici, fibre, legamenti, grafemi ingigantiti, tutti gli scampoli dell’enorme “scriptorium” creato nei secoli appunto per tentare di passare dalla parola parlata a quella scritta. Ma beninteso nell’uno e nell’altro caso siamo ben al di là, o al di qua, della soglia di pertinenza linguistica. In sostanza, si tratta di ingrandimenti, un po’ come esaminare al microscopio qualche campione di tessuto organico, o qualche frammento di una lega metallica, per vedere se le varie componenti “tengono”, o se invece si stanno sfaldando. Beninteso, tutti questi campioni sono dotati di movimento, scorrono, offrono vivaci effetti cinematici. In un certo senso noi visitatori siamo invitati a sedersi in poltrona, e ad assistere a questi multipli esperimenti di analisi millimetrica, di auscultazione della materia. Come fossimo posti in un batiscafo deciso a immergersi in profondità abissali. Noi ce ne stiamo in un luogo protetto, ma le finestrelle, gli oblò di cui l’imbarcazione è dotata ci permettono di inviare sguardi attoniti, sgomenti, affascinati verso i misteri del cosmo. E’ questo un modo particolarmente attuale per provare l’esperienza del sublime.

Renato Barilli, Bologna, maggio 1996


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